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LE IMMAGINI ANTICHE DELL’AVANGUARDIA DEI GAMBERI. La rifondazione dell’architettura del dopoguerra tra Italia e Stati Uniti.
Author
Filippo Cattapan
Architettura per immagini
Nel 1985, nel libro I nuovi architetti italiani, Paolo Portoghesi parla di “avanguardia dei gamberi” per riferirsi agli architetti che, in modi diversi, ruotano intorno alla Biennale di architettura del 1980, La presenza del passato (Portoghesi 1985, p. XII). Questa categoria, alternativa rispetto alle più note e connotate di Postmodernism o Neo-rationalism 1 Si veda: C. Jencks, The Language of Post-modern Architecture, Rizzoli, New York 1991, e K. Frampton, Modern Architecture: A Critical History, Thames & Hudson, Londra 2020. , si estende a una rete di figure più aperta, non definita da un linguaggio unitario codificato, ma da una direzione di ricerca condivisa. Il tratto principale di questa ricerca è innanzitutto la riscoperta progettuale del passato della disciplina, dei suoi temi e delle sue figure, attraverso il mezzo fondamentale delle immagini.
Questo contributo analizza il riemergere di un immaginario “antico” nell’architettura del secondo dopoguerra, in particolare in relazione al dialogo serrato che si stabilisce tra Italia e Stati Uniti. Attraverso processi analogici di diverso tipo, le immagini “antiche” informano le pratiche del progetto e della sua rappresentazione e, per mezzo di queste, le stesse idee che caratterizzano il coevo discorso disciplinare. In un mondo in cui le immagini diventano sempre più presenti sulla stampa e sugli schermi, questo sistema di riferimenti visuali funge da cruciale vettore di conoscenza tra comunità di pratica geograficamente e culturalmente distanti, costituendo un fattore di coesione attraverso cui riconoscere la propria reciproca affinità.
Da dove riemergono queste immagini che erano state a lungo dimenticate? Quali migrazioni, percorsi o traiettorie compiono prima di riaffiorare all’interno della cultura disciplinare del tempo? Nel dopoguerra, gli architetti si trovano tra due spinte opposte: da una parte la diffusione pervasiva di queste immagini, dall’altra il pregiudizio persistente nei confronti di una cultura visiva e non scritta, pregiudizio che affonda le proprie radici nei valori fondamentali della cultura occidentale sin dal mito platonico della caverna. Pertanto, l’utilizzo sempre più determinante che viene fatto di questi materiali si accompagna, nella maggior parte dei casi, a una volontà più o meno consapevole di dissimulare il rilievo che stanno progressivamente assumendo 2 A questo proposito, si veda, per esempio: G. Vattimo, P.A. Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 2011, citato anche da Portoghesi nell’introduzione a I nuovi architetti italiani (Portoghesi 1985) e Sylvia Lavin in Architecture Itself and Other Postmodernization Effects (Lavin 2020, p. 42), in cui viene anche riportato l’avvertimento iniziale di Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour ai lettori di Learning from Las Vegas (Venturi, Scott Brown, Izenour 1972, p. 90) sull’utilizzo delle immagini da parte degli architetti. . Questa forma di reticenza contribuisce senza dubbio alle difficoltà che si affrontano nello studio dei materiali iconografici. In questo contesto, l’affinità visiva tra i documenti e i relativi esiti disciplinari diventa il metodo principale, se non l’unico, con cui districarsi all’interno di un panorama complesso di traiettorie, migrazioni e traduzioni di forme e di idee 3 La metodologia applicata è di fatto iconologica. Si veda: C.S. Wood, A History of Art History, in particolare il riferimento a Bordieu in merito alle nozioni di misunderstandings, half-understandings e synthetic intuition in Panofsky (Wood 2019, p. 368-369). .
L’immaginario “antico” non è legato a un luogo o a un periodo storico determinati, ma spazia indistintamente all’interno della tradizione classica e vernacolare, dall’architettura greca e romana alle sue riletture successive, rinascimentali, manieriste e neoclassiche, ma anche alle tipologie tradizionali, urbane, rurali e alpine. Vista la geografia di questi riferimenti, la conclusione più logica è che queste influenze siano arrivate dall’Europa, e in particolare dall’Italia. Si tratta però di una risposta parziale, condizionata anche dal pregiudizio di una necessaria superiorità culturale del vecchio continente rispetto al nuovo. Questo contributo sostiene una tesi diversa, ovvero che, al contrario, l’interesse per queste immagini e il loro conseguente utilizzo operativo nella progettazione sia riemerso prima di tutto nell’ambito di una serie di centri statunitensi, e che quindi sia stato il dialogo continuo tra i due paesi e continenti a renderne possibile lo sviluppo e il successivo “ritorno” in Europa.
La forma attraverso cui avviene il dialogo tra le comunità disciplinari dei due continenti è principalmente quella della mostra di architettura, intesa non come mostra retrospettiva, ma soprattutto come esposizione dei lavori di giovani architetti dell’epoca, delle loro prime opere e ricerche teoriche. A partire dagli anni ’70, da una parte e dall’altra dell’oceano si organizza un numero del tutto nuovo di eventi del genere. L’Italia in particolare, per ragioni sia culturali che politiche ed economiche, ne diventa il principale palcoscenico. Si tratta di momenti di incontro e di scambio tra i partecipanti, ma anche di occasioni per diffondere progetti e idee a una scala più ampia. I documenti di cui oggi disponiamo in merito a queste mostre, i cataloghi e le fonti di archivio, sono materiali fondamentali per comprendere gli sviluppi e tracciare le traiettorie del pensiero disciplinare dell’epoca. I materiali esposti mostrano in modo emblematico il cambiamento di paradigma in corso. In pochi anni, la disciplina si sposta infatti da una sofferta riconsiderazione dell’eredità del Modernismo alla sperimentazione di nuove direzioni, sia linguistiche che teoriche, profondamente influenzate da una rinnovata presenza dell’“antico”. È la parabola che si compie tra la Triennale di Milano del 1973, Architettura razionale, curata da Aldo Rossi, e la prima Biennale di Architettura di Venezia del 1980, La presenza del passato, curata da Paolo Portoghesi. Il decennio che va dall’inizio degli anni ’70 ai primi anni ’80 è un momento cruciale in cui una serie di processi rimasti latenti fino a quel momento si concretizza rapidamente in nuove forme e idee.
La quarta scena serliana e il Teatro del mondo
La logica espositiva e la struttura spaziale della Biennale del 1980 sono permeate dalla presenza di alcune immagini “antiche”, che ne determinano le forme e l’estetica generale. La Strada Novissima allestita nelle Corderie dell’Arsenale è infatti la riproduzione teatrale di una strada urbana, in cui sono affiancate le facciate di 20 edifici fittizi, ciascuno progettato da un architetto diverso e corrispondente a una singola sala espositiva. L’allestimento della Strada mostra una diretta affinità con una certa idea di scenografia urbana che affonda le sue radici nel trattato di Serlio – e quindi in Vitruvio –, nella scenografia del palladiano Teatro Olimpico progettato da Scamozzi, ma anche nei loro successivi sviluppi settecenteschi a opera di Giuseppe Galli da Bibbiena e di Francesco Piranesi. In particolare, la sezione della scena del Teatro Olimpico, nella versione ridisegnata da Ottavio Bertotti Scamozzi nel 1776, occupa la copertina del catalogo della Biennale e ne costituisce il principale riferimento.
Il disegno di Dennis Crompton Under the Shadow of Serlio, pubblicato nel 1982 nel numero speciale di “Architectural Design” sul tema Free-Style Classicism, fornisce una prova ulteriore di come gli architetti dell’epoca associassero gli allestimenti della Biennale a questo immaginario. Si tratta di una raccolta di frammenti architettonici tratti dalla Presenza del passato, tra cui l’ingresso dell’Arsenale e il Teatro del mondo di Aldo Rossi, ricomposti all’interno di una nuova scena serliana d’invenzione. Questa rappresentazione riprende e sviluppa visivamente l’interpretazione teatrale della Strada proposta da Demetri Porphyrios nell’editoriale pubblicato nello stesso numero della rivista.
Nonostante l’evidenza visuale di queste corrispondenze, Paolo Portoghesi non ne fa menzione nel catalogo della mostra. Secondo il curatore, l’intenzione principale dell’allestimento era quella di insistere sulla dimensione operativa del progetto, coinvolgendo gli architetti invitati in un’azione concreta che desse al pubblico la possibilità di un contatto fenomenologico diretto, tattile e spaziale, con l’architettura. Le immagini e i riferimenti, sebbene cruciali per la genesi della mostra, rimangono così su un piano parallelo rispetto a quello delle ragioni ufficiali. Questo piano risulta evidente per la sua stessa natura visiva, ma rimane del tutto implicito quando si entra nel merito delle spiegazioni. La stessa idea delle facciate teatrali è raccontata da Portoghesi come segue:
L’ipotesi della strada è nata a dicembre a Berlino nel clima delle feste natalizie, durante un seminario organizzato da Paul Kleihues al quale partecipavano anche Carlo Aymonino e Aldo Rossi. Dopo il doveroso omaggio a Schinkel e nei pressi della Alexander Platz, tra l’eco dell’ultimo Behrens e le sagome della Stalinallee, scoprimmo un meraviglioso luna-park chiuso in un recinto con una piazzetta circondata da piccoli stand che imitavano con materiali effimeri facciate di case, il pianterreno al vero e gli altri piani in scala 1:2; una risposta paradossale a un bisogno di città, di spazio chiuso e accogliente al centro di uno dei crocevia dell’architettura moderna (Portoghesi 1980, p. 12).
L’accento della narrazione è sull’aspetto sociale e sul bisogno di urbanità riscontrato anche in un luna park nel mezzo dell’espansione moderna della città. Tra questo livello astratto e quello operativo, tra le idee e le forme, si presenta una lacuna che rimane in apparenza insondabile.
L’altra grande installazione visibile a Venezia durante la Biennale del 1980 è il Teatro del mondo di Aldo Rossi, che può essere letto in modo simile. Il nome è di per sé eloquente: riprende quello del teatro galleggiante progettato da Vincenzo Scamozzi nel 1593 per l’incoronazione della Dogaressa Morosina Grimani, che darà seguito a una lunga tradizione di costruzioni effimere veneziane. La descrizione fornita da Portoghesi nel catalogo è ancora una volta piuttosto generica ed evita qualsiasi approfondimento in merito al suo carattere formale: “Architettura in azione è stato il Teatro del mondo che Aldo Rossi ha progettato costringendo lo scenario impassibile del bacino di San Marco a riaprire un dialogo interrotto da secoli con la diversità” (Portoghesi 1980, p. 13).
Osservando le fotografie dell’epoca, è difficile non cogliere l’eco dei capricci settecenteschi di Canaletto. Le fotografie di Martinelli mostrano il Teatro da lontano, appiattito sullo sfondo della città storica, accanto ai suoi punti di riferimento: la Punta della Dogana, le cupole del Redentore e della Salute, gli stabilimenti di Porto Marghera. La laguna diventa il palco mobile su cui questi frammenti sono messi in scena e quindi ricomposti secondo un nuovo ordine.
La composizione delle fotografie esalta il carattere pittorico delle innumerevoli e inaspettate viste urbane che si formano e si disfano continuamente al passaggio del Teatro del mondo. Si tratta di fatto di una serie infinita di effimere città analoghe, di capricci. La combinazione degli elementi è quella che si trova negli stessi disegni di Rossi, nelle sue nature morte paradossali, in cui chiese e caffettiere sono affiancate in interni impossibili privi di scala. Più che i più famosi capricci palladiani amati e citati da Rossi, viene in mente un’opera giovanile di Canaletto, il Capriccio con rovine classiche del 1723 4 Resta da capire se l’opera, un olio su tela di 180 x 323 cm, la cui ultima collocazione accertata è una collezione privata milanese, non sia stata per caso conosciuta da Aldo Rossi, se non di persona, almeno in riproduzione, attraverso una delle tante significative pubblicazioni su Canaletto e i vedutisti veneziani dello stesso periodo, come per esempio: C. Brandi, Canaletto, Mondadori, Milano 1960; P. Zampetti, Vedutisti veneziani del Settecento, Alfieri edizioni d’arte, Venezia 1967; G. Berto, L. Puppi, L’opera completa del Canaletto, Rizzoli, Milano 1968, e anche A. Corboz, Canaletto. Una Venezia immaginaria, Alfieri Electa, Milano 1983. 6 In Piranesi und sein Museum : die Restaurierung der Antike und die Entstehung des Style Empire in einer sich globalisierende Welt / Piranesi and His Museum. The Restoration of Antiquity and the Genesis of the Empire Style in a Globalizing World (Zentralinstitut für Kunstgeschichte-Deutscher Kunstverlag, Monaco-Berlino 2019), Caroline van Eck si sofferma sull’aspetto psicologico del restauro al tempo di Piranesi e riferisce in particolare due episodi riguardanti Wilhelm von Humboldt e Adam Buck. Entrambi avevano perso dei figli ed entrambi, in modi diversi, avevano sostituito le loro effigi in due opere d’arte, sotto forma di statue e dipinti. Le operazioni che abbiamo visto finora sembrano muovere da una necessità simile, di riappropriazione del passato e, allo stesso tempo, di azione sul presente. . In questo dipinto, una delicata basilica palladiana emerge, quasi fluttuando, sullo sfondo di un paesaggio di rovine veneziane. Queste immagini, pur lontane nel tempo, sembrano essere originate dallo stesso desiderio psicologico di stabilire un contatto fisico e progettuale tra il presente e un passa to che sembra sempre più remoto e sfuggente 5 In Piranesi und sein Museum : die Restaurierung der Antike und die Entstehung des Style Empire in einer sich globalisierende Welt / Piranesi and His Museum. The Restoration of Antiquity and the Genesis of the Empire Style in a Globalizing World (Zentralinstitut für Kunstgeschichte-Deutscher Kunstverlag, Monaco-Berlino 2019), Caroline van Eck si sofferma sull’aspetto psicologico del restauro al tempo di Piranesi e riferisce in particolare due episodi riguardanti Wilhelm von Humboldt e Adam Buck. Entrambi avevano perso dei figli ed entrambi, in modi diversi, avevano sostituito le loro effigi in due opere d’arte, sotto forma di statue e dipinti. Le operazioni che abbiamo visto finora sembrano muovere da una necessità simile, di riappropriazione del passato e, allo stesso tempo, di azione sul presente. .
Le meraviglie del mondo antico e la tecnica dell’incisione
Nonostante la provenienza eterogenea dei contributi e la pluralità delle esperienze dichiarate dal curatore, i materiali presentati alla Biennale del 1980 appaiono sostanzialmente coesi. La loro affinità testimonia l’esistenza di uno scambio culturale determinante all’interno di un’ampia comunità internazionale, completamente rinnovata rispetto alla rete del CIAM su cui si erano poste le basi del movimento moderno. Un tema cruciale della mostra è sicuramente la rappresentazione dell’architettura, con una particolare attenzione al disegno, alla pittura e, in generale, al recupero delle tecniche tradizionali: i materiali esposti non si limitano a citare il repertorio delle immagini “antiche” ma lo rielaborano strutturalmente in modo complesso. I mezzi grafici applicati non agiscono solo come codici estetici, ma incidono profondamente sulle modalità stesse della progettazione.
A questo proposito, sembra eloquente il progetto di Christian de Portzamparc per lo Château d’eau a Marne-La-Vallée (1971-1974). La struttura tecnica di una torre dell’acquedotto è rivestita con una griglia metallica sagomata come una massiccia torre di Babele, il cui inserimento formale in un quartiere residenziale della periferia di Parigi produce un forte effetto di straniamento. De Portzamparc, che si è formato all’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi, conosceva sicuramente il vasto repertorio di torri di Babele che si trova nelle pubblicazioni grafiche del XVII e XVIII secolo, da Athanasius Kircher e Bernard Lamy a Johann Bernhard Fischer von Erlach e Giovanni Battista Piranesi, e sembra farvi ricorso più o meno consapevolmente nell’immaginare il volume della torre dell’acqua e il suo inserimento quasi pittorico e decisamente pittoresco all’interno del contesto. Come avviene nei libri seicenteschi e settecenteschi, il riferimento alle meraviglie del mondo antico sembra assumere il ruolo di ricongiungere il presente con un passato mitico, carico di forti significati archetipici.
La griglia metallica usata per il rivestimento dà forma al volume e serve da supporto per i rampicanti, predisposti per mezzo di una serie di vasche perimetrali agganciate alla struttura. Si tratta di un elemento aggiuntivo che contribuisce a conferire alla torre l’aspetto dirovina attaccata dalla vegetazione. La trama minuta della griglia evoca inoltre vividamente lo stesso tratteggio utilizzato per rendere il chiaroscuro nelle incisioni. È in questo modo che la tecnica dell’incisione diventa uno strumento di progetto fondamentale, non solo per la sua rappresentazione finale ma prima di tutto per la sua concezione. Questo processo di scambio/traduzione/trasmissione avviene direttamente nella sfera della pratica e tocca solo tangenzialmente la teoria esplicita della disciplina.
Composizioni di frammenti e assemblaggi di rovine
L’influenza delle immagini “antiche” gioca un ruolo chiave anche in relazione alla composizione degli elementi architettonici. Questo tipo di impatto, che si può definire strutturale, è visibile a vari livelli nei progetti e nei disegni esposti alla Biennale, nella composizione grafica delle superifici, in pianta, in sezione e in prospetto, così come in quella tridimensionale dei volumi. L’assemblaggio delle parti, che siano citazioni o veri e propri frammenti di architettura, si pone come tema chiave attorno al quale si articola la corrispondenza tra progetto e immagine. Da questo punto di vista, i progetti di Hans Hollein, Aldo Rossi e Robert Venturi sono particolarmente emblematici.
L’assonometria del progetto di Hollein per il Museum of Arts and Crafts di Francoforte sembra mostrare ad esempio una sostanziale affinità con le rappresentazioni assonometriche del Campo Marzio dell’antica Roma di Giovanni Battista Piranesi e Robert Adam, in particolare quella raffigurata sul frontespizio dell’edizione del 1756. Nonostante le evidenti differenze di contesto, la corrispondenza tra i due disegni sembra essere così letterale da suggerire addirittura un possibile riferimento diretto. Le due immagini condividono lo stesso tipo di rappresentazione assonometrica e la stessa struttura compositiva: in entrambe troviamo un corso d’acqua centrale, posizionato orizzontalmente, su cui si affacciano le architetture principali, disposte perpendicolarmente secondo rigorose sequenze orizzontali e verticali. Su questo palinsesto, ci sono ulteriori risonanze nell’uso delle geometrie elementari “romane” – archi, circonferenze e semicirconferenze – e nella loro composizione additiva secondo un criterio di assialità e simmetria.
Dal punto di vista concettuale, la dichiarazione progettuale di Hollein è un tentativo di inserire un’idea di densità e complessità urbana in un contesto di urbanità diffusa. La natura stessa del singolo edificio si frammenta in una logica di relazioni di tipo urbano, premendo contro i limiti dell’area di progetto e cercando di informare ciò che sta fuori. L’inversione di figure e ground rispetto alla logica del contesto sembra indicare l’influenza di Collage City di Rowe e Koetter, pubblicato solo due anni prima (Rowe, Koetter 1978). Questa connessione potrebbe spiegare ulteriormente l’uso del Campo Marzio come riferimento per la progettazione del museo 6 In merito alla centralità di Roma e delle sue più celebri rappresentazioni planimetriche, in particolare di Nolli e Piranesi, all’interno del discorso urbanistico americano del dopoguerra, si veda: A.P. Latini, Nollimap, in M. Bevilacqua (a cura di), Nolli Vasi Piranesi. Immagine di Roma Antica e Moderna. Rappresentare e conoscere la metropoli dei lumi, Artemide, Roma 2004, pp. 64-71. .
Per quanto riguarda l’influenza della cultura americana, è importante notare che, prima di aprire il suo studio a Vienna, Hollein ha studiato negli Stati Uniti e vi si trovava nel 1961 in occasione dell’importante mostra su Piranesi ospitata allo Smith College of Arts (Parks 1961). L’influenza di questo evento potrebbe spiegare anche la significativa risonanza con il negozio di candele di Vienna del 1964, la cui facciata anticipa, sia pure a livello bidimensionale, geometrie e temi compositivi del museo di Francoforte.
Una simile corrispondenza visiva può essere individuata anche tra il progetto di Aldo Rossi e Gianni Braghieri per la Landesbibliothek di Karlsruhe, poi realizzata da Oswald Mathias Ungers, e la Karlskirche di Fischer von Erlach, in particolare in relazione ai disegni contentuti nel suo Entwurff einer Historisches Architektur. Aldo Rossi non fa spesso riferimento a Fischer von Erlach nei suoi scritti. Si trovano solo due menzioni indirette nel saggio Adolf Loos 1870-1930, pubblicato nel 1959. Sulla base di queste testimonianze, è comunque possibile ipotizzare che egli avesse una certa conoscenza del pensiero e delle opere di Fischer von Erlach già dagli anni degli studi al Politecnico 7 Si veda in particolare: “A Vienna, sullo sfondo della grande, civilissima architettura austriaca, che si compendia nella Josefplatz dove sorge il capolavoro di Fischer von Erlach.” e, più avanti, “Ma se a tutta prima questo classicismo suona come la stessa eternità dello spirito in un mondo senza storia, esso torna poi a risolversi in singoli momenti che intessono di sé la storia. Brunelleschi e Alberti, Fischer von Erlach e Schinkel sono come i fari che segnano l’orizzonte in questo alternarsi del flusso del tempo” (Rossi 1959, pp. 77, 84). . Analogamente al caso di Hollein, si osserva una prima affinità tra riferimenti e disegni di progetto a livello di rappresentazione grafica: come nelle tavole di Fischer von Erlach, la pianta e il prospetto presentati da Rossi e Braghieri sono impaginati in due tavole separate, incorniciate da una sottile linea nera con alcune iscrizioni aggiunte ai margini. L’analisi compositiva dei due progetti conferma ulteriormente questa prima impressione. In pianta si riconosce chiaramente una stessa composizione lineare e simmetrica basata su una sequenza di elementi pressoché analoga: l’ingresso-tempio avanzato, il muro-portico che media il rapporto con la strada e la città, le coppie di elementi verticali affiancati, il corpo principale arretrato. Sia pure declinati in modi diversi, tutti questi elementi si articolano analogamente lungo un asse centrale fondante che si innesta sull’ingresso principale dei due edifici. Lungo questo asse, aperto su entrambi i lati, anche la posizione degli elementi di distribuzione sembra sostanzialmente corrispondere.
In facciata, l’analogia è forse più libera ma altrettanto riconoscibile, se non altro graficamente. La corrispondenza tra disegno e incisione diventa qui infatti più visuale che architettonica: anche quando gli elementi della composizione non si corrispondono precisamente, è la densità di tratto delle incisioni di Fischer von Erlach che sembra essere tradotta in segni e materiali più o meno densi o leggeri nel progetto di Rossi e Braghieri. Questo aspetto si evidenzia in particolare nel rapporto tra gli elementi verticali dei due progetti, nella cupola della Karlskirche che diventa la lama vetrata centrale della Landesbibliothek e nelle due coppie di obelischi e di torri che si traducono in serie di bucature più o meno grandi e fitte.
Se gli esempi di Hollein e di Rossi mostrano due forme comparabili di composizione additiva ortogonale e sostanzialmente ordinata, il progetto per la Brant House di Venturi e Scott Brown introduce un assemblaggio planimetrico e volumetrico più libero, che tuttavia rimanda di nuovo a un immaginario visivo “antico”. La fotografia del progetto esposta alla Biennale mostra i diversi corpi dell’edificio emergere da una fitta vegetazione con lo sfondo di un cielo blu striato di nuvole. La frammentazione planimetrica in corpi sfalsati accentua la percezione degli elementi come indipendenti, nonostante l’omogeneità cromatica delle loro superfici. L’esito finale mima la composizione di un capriccio fantastico con rovine, in cui oggetti diversi sono disposti pittoricamente sulla base delle reciproche relazioni formali e proporzionali. A conferma di ciò, l’immagine mostra in particolare una precisa affinità visuale, compositiva quanto atmosferica, con il Capriccio con chiesa gotica di Marco Ricci del 1720.
Il tema del frammento è, del resto, un aspetto cruciale della riflessione di Venturi e Scott Brown anche a livello di disegno delle facciate. In modi diversi, il segmento circolare sopra l’ingresso della Vanna Venturi House, la finestra termale dell’estensione della Brant House a Greenwich, le colonne piatte del portico della casa di Newcastle Country sono tutti frammenti importati da un vasto repertorio di riferimenti europei e italiani, gli stessi che si ritrovano in Complexity and Contradiction in Architecture (Venturi 1966). L’opera di Venturi e Scott Brown funge da compendio delle diverse direzioni che possiamo individuare nel panorama americano dell’epoca, tutte ampiamente rappresentate alla Biennale del 1980.
Gli émigrés e la storia dell’arte tedesca negli Stati Uniti
Una volta individuato questo immaginario “antico”, è ora possibile riflettere in modo più approfondito sulle sue origini sociali, psicologiche e culturali. La vicenda di queste immagini sembra iniziare ben prima della loro effettiva comparsa nel campo dell’architettura, nell’emergere di una mentalità capace di riconoscerle e di utilizzarle. L’arrivo in Inghilterra e negli Stati Uniti nella prima metà del XX secolo di un gran numero di studiosi, ebrei ma non solo, emigrati dall’Europa, e in particolare dalla Germania, per sfuggire alle persecuzioni del regime nazionalsocialista, è di sicuro un aspetto determinante di questo processo. Figure come Aby Warburg e Rudolf Wittkower a Londra, e come Erwin Panofsky e Lionello Venturi negli Stati Uniti determinarono infatti una rivoluzione nell’idea di storia dell’arte nei paesi anglosassoni. Come sottolinea Christopher Wood:
La storia dell’arte americana nel 1933 era provinciale e anti-intellettuale; in Inghilterra la conoscenza dell’arte era legata alla classe e al collezionismo e aveva pochi punti di appoggio nelle università. Gli emigrati costruivano le biblioteche, formavano gli studenti, davano lezioni. Gli americani imparavano in fretta (Wood 2019, p. 331).
Conferenze pubbliche come quella tenuta nell’inverno del 1935 al Museum of Modern Art di Philadelphia (poi Pennsylvania), con relatori Dewitt Parker, John Dewey, Alfred North Whitehead, Erwin Panofsky, Meyer Schapiro, Ananda Coomaraswamy e Gustav Pauli, costituirono momenti fondamentali di scambio e costruzione di una nuova sensibilità. Attraverso queste occasioni, l’arte del passato divenne sempre di più un materiale disponibile per riflettere attivamente sul presente.
Insieme al ruolo centrale di Panofsky 8 Di Erwin Panofsky si veda in particolare l’influenza di Studies in Iconology: Humanistic Themes in the Art of the Renaissance (Panofsky 1939) e Meaning in the Visual Arts: Papers in and on Art History. (Panofsky 1955). – invitato alla New York University già nel 1931, quindi professore all’Institute for Advanced Study di Princeton a partire dal 1935 –, non va sottovalutato il contributo di studiosi come Henri Focillon e Emil Kaufmann. Focillon lasciò la Sorbona durante la Seconda guerra mondiale e si trasferì prima a Georgetown, alla Dumbarton Oaks Research Library and Collection, e poi a Yale. Kaufmann si trasferì invece negli Stati Uniti da Vienna, dove aveva sviluppato la sua tesi di dottorato su Ledoux e il Neoclassicismo
con Max Dvořák e dove aveva pubblicato il suo primo testo, Von Ledoux bis Le Corbusier (Kaufmann 1933). Una volta negli Stati Uniti, Kaufmann insegnò in varie università e pubblicò i suoi due testi fondamentali, Three Revolutionary Architects: Boullée, Ledoux, Lequeu nel 1952 e poi Architecture in the Age of Reason: Baroque and Post-Baroque in England, Italy, and France (Kaufmann 1968a; 1968b), uscito postumo nel 1955, i quali contribuirono a promuovere nel contesto americano l’idea di un’interconnessione tra presente e passato e la loro possibile continuità sia dal punto di vista formale che ideologico.
Questi anni sono anche un momento fondamentale di scambio tra le discipline della storia dell’arte e dell’architettura che, attraverso un reciproco confronto, ridefiniscono le loro aree di influenza e i loro orizzonti. Sempre Christopher Wood nota che:
Alla fine della guerra, la disciplina [della storia dell’arte] entra in convalescenza. La storia dell’arte in quanto tale è affaticata, non ha più fiducia in quello che era sempre stato il suo oggetto principale, l’oggetto che le dava senso: la pittura. La storia dell’architettura ha il suo momento […]. Diffidenti nei confronti dell’arte perché si occupa di illusioni, molti storici dell’arte guardano all’architettura come un veicolo affidabile di contenuti, qualsiasi contenuto, segnalando la volontà di fidarsi di nuovo degli antenati (Wood 2019, pp. 352, 363).
Attraverso quindi questo doppio scambio, allo stesso tempo geografico e disciplinare, la storia dell’arte di matrice tedesca finisce per esercitare un’influenza decisiva non solo sulla storia dell’architettura, ma anche sulla sua stessa pratica. Questo impatto si realizza attraverso la diffusione tanto di nuovi riferimenti visivi quanto di nuove idee e prospettive, in particolare quelle dell’idealismo e del formalismo. Grazie al filtro del pragmatismo americano dell’epoca, questi approcci attivano un sostanziale processo di ridefinizione della disciplina. Un’influenza che può essere forse paragonata a quella che ebbero i social studies intorno alla fine dell’Ottocento 9 Il loro emergere e affermarsi è stato ugualmente determinante per la ridefinizione dell’architettura moderna, così come è possibile vedere in Hauser e Mannheim ma anche in Pevsner e Schapiro. Si veda: E. Levy, Baroque and the Political Language of Formalism (1845-1945). Burckhardt, Wölfflin, Gurlitt, Brinckmann, Sedlmayr, Schwabe Verlag, Basilea 2015. .
La ricezione della cultura europea continentale negli Stati Uniti non fu a ogni modo un’acquisizione passiva. La posizione netta di Fiske Kimball, che si propone esplicitamente di “sconfiggere” le idee dei teorici tedeschi con i fatti del pragmatismo americano, ne è emblematica 10 Fiske Kimball è fondatore dell’Institute of Fine Arts della New York University e poi direttore del Philadelphia Museum of Art. È stato lui a invitare Panofsky al programma di conferenze pubbliche nel 1935. Nel 1943 Kimball pubblica The Creation of the Rococo, che certamente può aver esercitato un certo peso nel portare l’attenzione dell’epoca verso la produzione artistica europea settecentesca (Kimball 1942; 1943). Si vedano inoltre: N. Pevsner, Rezension, in “Burlington Magazine for Connoisseurs”, 88, 1946, pp. 128- 130; F. Kimball, American Architecture, AMS Press, New York 1970. . Più che la vittoria di una posizione sull’altra, il risultato del dialogo/scontro tra le due posizioni sembra essere stato in definitiva quello di una significativa contaminazione e ricombinazione delle due, nella forma di una riattivazione pragmatica e operativa delle idee astratte dell’idealismo e della storia dell’arte tedesca. Il generale e progressivo spostamento di interesse dal presente al passato che corrisponde a questo processo è ulteriormente accentuato dalle conseguenze disastrose del conflitto che, a livello psicologico e culturale, minano in modo sostanziale la fiducia moderna nel progresso 11 In relazione al panorama della storia dell’arte, Christopher S. Wood nota che: “For Wittkower and Panofsky, war brought the pastoral fable to an end. Now the present needs lessons from the past. That is the basic split after the war, even today: who is confident any longer that modernity can manage its own affairs?” (Wood 2019, p. 371). . La storia dell’arte, in particolare quella degli émigrés, sembra riconoscere e incanalare questa direzione prima di altre discipline.
Negli Stati Uniti, in questi anni si assiste al definitivo consolidamento della storia dell’arte nel nuovo sistema educativo di massa. Il testo di riferimento di questa rivoluzione è The History of Art, pubblicato nel 1962 da un altro storico emigrato, H.W. Janson (Janson 1962) 12 Si vedano inoltre: H.W. Janson, D.J. Janson, Key Monuments of the History of Art: A Visual Survey, Harry N. Abrams, New York 1959; H.W. Janson, D.J. Janson, Picture History of Painting, from Cave Painting to Modern Times, Thames & Hudson, Londra 1971; H.W. Janson, A.F. Janson, History of Art and Music, Harry N. Abrams, New York, 1997; H.W. Janson, A.F. Janson, History of Art, Harry N. Abrams, New York 2001. . L’approccio è essenzialmente formalista e, di nuovo, si basa sull’idea di una continuità storica che, dopo la parentesi modernista, riallacci i fili tra passato e presente. In un tale contesto, il ruolo decisivo assunto dalle immagini sembra essere stato ulteriormente favorito da una serie di fattori biografici, culturali e tecnici: da un lato il fatto che, soprattutto all’inizio, gli studiosi europei che arrivavano negli Stati Uniti non conoscevano la lingua, che spesso si trovavano a insegnare in contesti non specialistici, e che dovevano parlare di opere e architetture lontane, nella maggior parte dei casi completamente sconosciute al pubblico; dall’altro, soprattutto dopo la guerra, la diffusione delle diapositive e la loro affermazione come strumento sempre più fondamentale con cui fare lezione 13 A questo proposito, Sylvia Lavin nota che: “By the 1960s, in fact, “images” increasingly meant color slides, cheap, quick, and high-quality even in the hands of amateur photographers and the machines of automated film processing, they could be produced and reproduced in staggering quantities. […] As the cost and hence the value of any individual image decreased, the number of images used and, ultimately, expected on any given occasion increased. Drexler’s proposed lectures required at least forty images and Venturi’s book required 360 images, each printed at the size of a 33 mm slide” (Lavin 2020, p. 41). . La tecnologia delle diapositive corrispondeva in modo perfetto alle esigenze degli studiosi europei emigrati, rafforzando ulteriormente il carattere visivo della loro comunicazione e del loro insegnamento, così come del loro stesso modo di pensare.
La conseguente rinascita di un interesse per la storia dell’arte, in particolare quella europea, si traduce presto in una consistente produzione editoriale. Gli anni del dopoguerra sono un periodo particolarmente prospero per l’editoria d’arte negli Stati Uniti. Sugli scaffali americani degli anni ’60 vediamo innanzitutto una certa diffusione di titoli legati all’architettura del Rinascimento e del Manierismo italiano, tra cui gli studi di James Ackerman su Palladio e Michelangelo, che seguono a loro volta quelli inaugurati da Wittkower al Warburg Institute di Londra 14 Si veda ad esempio: J. Ackerman, The Architecture of Michelangelo, University of Chicago Press, Chicago 1996; Palladio, Penguin Books, Londra-New York 2008; Palladio’s Villas, Institute of Fine Arts, New York University, New York 1967; ma anche: C.H. Smyth, Mannerism and Maniera, IRSA Verlag, Vienna 1992 ; J. Shearman, Mannerism, Penguin Books, Harmondsworth 1969; Mannerism: Style and Civilization, Penguin Books, Londra 1978; che seguono, in Gran Bretagna, R. Wittkower, Principles of Palladio’s Architecture: II, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, v. 8, 1945, pp. 68-106; R. Wittkower, Architectural Principles in the Age of Humanism, Warburg Institute Londra 1949. . Rinascimento e Manierismo, temi chiave del coevo discorso disciplinare, sono anche oggetto di un importante congresso di storia dell’arte che si tiene a Princeton nel 1961, da cui la pubblicazione degli atti nel 1963 (Meiss 1963). Accanto a questi contributi, tuttavia, vi è anche una notevole serie di pubblicazioni su disegni e stampe europei del XVII e XVIII secolo, in particolare su Piranesi, Fischer von Erlach e Bibbiena 15 Si vedano, su Piranesi: R. Bacou (a cura di), Piranesi: Etchings and Drawings, New York Graphic Society, Boston 1975; J. Scott, Piranesi, Academy editions, Londra 1975; J. Wilton-Ely, The Mind and Art of Giovanni Battista Piranesi, Thames & Hudson, Londra 1978; su Fischer von Erlach: H. Aurenhammer, Johann Bernhard Fischer von Erlach, Harvard University Press, Cambridge 1973; ma anche: C. Coulin, Drawings by Architects: From the Ninth Century to the Present Day, Reinhold Publishing Corporation, New York 1963; G. Bazin, The Baroque: Principles, Styles, Modes, Themes, Norton, New York 1978; su Bib(b)iena: A. Hyatt Mayor (a cura di), Giuseppe Galli da Bibbiena, Architectural and Perspective Designs, Dover Publications, NewYork 1964; D. Kelder (a cura di), L’Architettura civile: Ferdinando Galli Da Bibbiena, B. Blom, New York 1971. .
È interessante notare come, secondo una certa consuetudine del mercato editoriale anglosassone, compaiano presto, accanto alle pubblicazioni accademiche e alle collezioni più raffinate, una serie di edizioni più accessibili con tirature più elevate. Così, la Dover Publications stampa i Quattro Libri di Palladio e i disegni di Piranesi della Pierpont Morgan Library, la Penguin Books pubblica i volumi di John Shearman sul Manierismo, mentre la Gregg Press – conosciuta soprattutto per la sua Science Fiction Series – comincia a ristampare e a distribuire dai primi anni ’60 una serie di pubblicazioni antiquarie inizialmente destinate al mondo accademico inglese. Tra queste troviamo significativamente Palladio, ma anche Scamozzi, Piranesi e Fischer von Erlach 16 Si vedano, di Dover Publications: F. Stampfle, Giovanni Battista Piranesi: Drawings in the Pierpont Morgan library, New York 1978; C.D. Denison, H.B. Mules, European Drawings, 1375-1825, New York 1981; di Gregg Press: J.B. Fischer von Erlach, A Plan of Civil and Historical Architecture, in the Representation of the Most Noted Buildings of Foreign Nations, Both Ancient and Modern, Farnborough 1964); R. Boyle of Burlington, The fabbriche antiche of Andrea Palladio, Farnborough 1969; W. Pain, The Builder’s Pocket- Treasure; Or, Palladio Delineated and Explained, Farnborough 1972; J. Wilton-Ely (a cura di), The Polemical Works, Rome 1757, 1761, 1756, 1769: Giovanni Battista Piranesi, Farnborough 1972. .
Anche nel campo dell’Urban Design, la produzione dell’epoca è contraddistinta da una significativa presenza di immagini “antiche”. In particolare, la Nuova Pianta di Roma di G.B. Nolli del 1748 ricorre in numerose pubblicazioni, come Design of Cities di Edmund Bacon del 1967, testo fondamentale a lungo adottato nei corsi delle università americane (Bacon 1967). Come emerge chiaramente nella rassegna di Steven Hurtt del 1983 (Hurtt 1983), la pianta di Nolli ha un posto di rilievo nella didattica di quegli anni, in particolare alla Cornell University, e assume così un ruolo determinante nella definizione del relativo pensiero urbano e architettonico.
European content and American shell
Il nuovo interesse per le immagini “antiche” che si diffonde negli Stati Uniti per mezzo di libri e diapositive è dovuto prima di tutto a una mentalità molto diversa da quella che si riscontra in Europa nello stesso periodo. Le ragioni di questa differenza sono molteplici: da una parte il desiderio di rivalsa culturale nei confronti dell’Europa 17 La mostra Europa-America è da questo punto di vista un esempio emblematico. In una recente intervista (…), Robert Stern sostiene senza mezzi termini: “Lo scambio interculturale della Biennale del 1976 fu una grande opportunità per non sentirci come gli americani stupidi che ricevevano saggezza dal Vecchio Mondo, ma per mostrare al Vecchio Mondo che anche noi avevamo idee, idee diverse ma ugualmente valide e interessanti”. , desiderio ulteriormente rafforzato dalla possibilità di una sua conoscenza più ampia, grazie prima di tutto alla guerra e quindi ai viaggi più accessibili e al turismo di massa, dall’altra una ricezione meno ideologica dell’architettura moderna, che corrisponde al carattere sostanzialmente pragmatico dell’edilizia e dell’urbanistica americane 18 In merito a questo tipo di approccio, alcuni autori hanno fatto riferimento a un substrato teologico protestante della mentalità americana rispetto a quella europea o, se non altro, dell’Europa mediterranea. A questo proposito si veda ad esempio: S. Pisciella, America-Europa-America IAUS-IUAV-IAUS 1971- 1976-1978, in V.P. Mosco (a cura di), La mia età è l’età del mondo, Aracne, Roma 2014, pp. 62-79. In questo saggio, Pisciella offre una lettura specifica del periodo alla luce dei rapporti dello IAUS con l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia IUAV. Il contributo presente tenta un più ampio inserimento di questo dialogo all’interno di una dinamica transatlantica di scala più generale. Questo punto di vista permette un’inversione delle “migrazioni” individuate: non più America-Europa-America, ma Europa-America-Europa. . Colin Rowe descrive chiaramente questa idea americana di modernità nel suo testo per la mostra di Rossi alla Triennale di Milano del 1973:
[…] consciamente o inconsciamente, negli anni Trenta, quando l’architettura moderna europea cominciò a diffondersi negli Stati Uniti, essa fu presentata semplicemente come un nuovo approccio all’edilizia, e niente di più. Fu cioè presentata abbondantemente purgata del suo contenuto ideologico e sociale, e fu utilizzata non come un’evidente manifestazione (o causa) in qualche modo dell’ideologia socialista, ma piuttosto come un décor de la vie per Greenwich, Connecticut, o come maschera adatta per le attività corporative del capitalismo illuminato (Rowe 1975, p. 108).
In Europa, dopo la guerra si assiste a un fenomeno sostanzialmente contrario. Il vincolo ideologico con l’architettura moderna, per quanto complesso e problematico, è reso ancora più forte dalle implicazioni politiche che i linguaggi dell’architettura “antica”, sia il classico che il vernacolare, hanno assunto durante la prima metà del secolo nelle mani dei regimi totalitari. Si tratta di un peso che è naturalmente più sentito in paesi come la Germania e l’Italia, in cui le tracce di queste esperienze sono più evidenti. All’indomani della guerra, l’urgenza della ricostruzione marca in modo ulteriore la frattura tra le posizioni nei due continenti: mentre in Europa prevale un nuovo pragmatismo, si afferma oltreoceano un altrettanto nuovo desiderio di teoria. È su questo sfondo che la storia dell’arte europea e le sue immagini “antiche” attecchiscono negli Stati Uniti e producono esiti così rilevanti.
All’interno di questo panorama, l’Italia assume un posto di particolare rilievo nel dialogo con gli Stati Uniti. Tra i due paesi si riscontra infatti un forte interesse reciproco, che non riguarda solo l’architettura. A tal proposito è significativo ricordare la tradizione americanista sviluppatasi in Italia già durante il fascismo, a partire dagli anni ’30, prima con Carlo Linati, Emilio Cecchi e Mario Praz, e poi con Giaime Pintor, Cesare Pavese ed Elio Vittorini, che nel 1941 pubblicarono Americana, un’importante antologia letteraria che lo stesso Rossi cita spesso nei suoi Quaderni azzurri 19 Si veda: E. Vittorini (a cura di), Americana, Bompiani, Milano 1941; ma anche: D. Fernandez, Il mito degli Stati Uniti per gli intellettuali italiani nel periodo fascista, in “Lettere Italiane”, vol. 29, n. 4, 1977, pp. 416-426, e J. Dunnett, The “Mito Americano” and Literary Culture under Fascism, Aracne, Roma 2015. . L’interesse italiano nei confronti degli Stati Uniti è, almeno in origine, fortemente legato a un orizzonte politico antifascista, basti pensare che Elio Vittorini è iscritto al Partito Comunista e scrive per il giornale di partito L’Unità. Gli Stati Uniti rappresentano in questo contesto il paese della democrazia e della libertà. Dopo la guerra però, nel corso dei successivi 30-40 anni, questa forte connotazione ideologica evolve e muta radicalmente, così come il panorama politico italiano. Negli anni ’80 America non significa più valori democratici ma, al contrario, disimpegno politico. È il momento in cui inizia la diffusione massiccia delle catene di hamburger a Milano e, subito dopo, in tutto il paese.
Le vicende di Aldo Rossi rappresentano bene il cambiamento sostanziale di valori che investe Europa e America negli anni che seguono la seconda guerra. I rapporti che intrattiene con gli Stati Uniti sono determinanti per la sua attività professionale quanto per le sue posizioni teoriche. Rossi visita gli Stati Uniti per la prima volta nel 1976, in occasione della mostra delle sue opere allo IAUS di New York, per poi iniziare a insegnare alla Cooper Union nel 1977, invitato da John Hejduk. Nel 1986, sulla base di questi scambi precedenti, Rossi aprirà poi lo studio di New York, che avrà un ruolo fondamentale per il resto della sua carriera. Il commento di Hejduk al Teatro del Mondo è significativo: “Inside is Europe, but outside, the shell is America” 20 Si veda la citazione di S. Fabbrini, The State of Architecture. Aldo Rossi and the Tools of Internationalization, Il Poligrafo, Padova 2020, p. 48. . Un giudizio criptico, che Rossi apprezza e riporta sia nella Scientific Autobiography che nei Quaderni azzurri (Rossi 1981; 1999), e che ben sintetizza l’esito del transfer transatlantico avvenuto nei decenni precedenti. Con il Teatro del Mondo, Rossi compie il passaggio successivo, riportando in Europa la conoscenza disciplinare che si è riattivata attraverso questo processo.
Già nel 1971, nel suo editoriale per “Casabella” 359-360, The City as an Artifact, Alessandro Mendini intuisce queste dinamiche. L’assunto del numero, curato in collaborazione con l’Institute for Architecture and Urban Studies IAUS di New York, è “[…] fare rimbalzare in Europa idee che negli Stati Uniti hanno già provocato comportamenti radicalmente alternativi alla prassi canonica della progettazione, e hanno innescato criteri inesplorati di espressività (si pensi a Robert Venturi)” (Mendini 1971). Questa dichiarazione di intenti, che già di per sé conferma la tesi di questo contributo, vale bene come programma disciplinare per il decennio alle porte.
È quello che di fatto si realizzerà attraverso lo scambio continuo permesso dal fitto calendario di mostre e di eventi che precedono La presenza del passato. Tra questi, in particolare, nel 1971 il seminario Architectural Education/USA: Issues, ideas and people e la mostra Education of an Architect: A Point of View al Museum of Modern Art di New York, in contemporanea con l’uscita di “Casabella”; nel 1972 la mostra Italy: The New Domestic Landscape. Achievements and Problems of Italian Design, sempre al MoMA, curata da Emilio Ambasz; nel 1973 la mostra Architettura razionale curata da Aldo Rossi alla Triennale di Milano; nel 1976 la mostra Europa-America. Centro storico-suburbio curata da Franco Raggi alla Biennale di Venezia; nel 1978 la mostra Roma interrotta ai Mercati di Traiano voluta da Giulio Carlo Argan, come poi la Biennale del 1980. Tutti questi eventi si fondano in modo sostanziale sulle figure, sulle forme e sui temi del dialogo transatlantico del dopoguerra.
Sul fronte italiano, l’emergere di questo dinamismo culturale va letto anche in relazione al momento politico ed economico del paese, il quale, dopo gli anni della ricostruzione e del cosiddetto boom, può finalmente investire nuovi fondi nel campo della promozione culturale e in particolare architettonica, visto anche il ruolo cruciale che la disciplina ha rivestito negli anni precedenti. Queste occasioni, molto diverse da quelle con cui gli architetti si erano confrontati nell’immediato dopoguerra, hanno anche un peso cruciale sulle direzioni che la professione e il discorso disciplinare prendono in quegli anni.
Le immagini “antiche” sono il mezzo tecnico principale di questo discorso, ma sono anche un supporto in grado di assorbire e mediare di volta in volta i significati culturali e politici che vi sono associati nei diversi contesti. Questi significati non sono fissi ma cambiano continuamente con le migrazioni dei loro supporti visivi. Seguire i percorsi e le ri-significazioni di queste immagini permette di comprendere gli sviluppi delle idee che vi corrispondono e che costituiscono il fondamento principale dell’architettura del dopoguerra. Le affinità visuali che sono state individuate in relazione alla Biennale del 1980 mostrano in modo emblematico la traiettoria descritta dalla cultura architettonica a partire dal dopoguerra: dalle lezioni e dai libri di storia dell’arte, alle facoltà di architettura americane, quindi di nuovo in Europa, ai tavoli degli architetti e alle pareti delle gallerie, passando attraverso le mostre, i cataloghi e le riviste.
La comprensione di questo momento fondamentale di rifondazione disciplinare è necessaria per affrontare il panorama contemporaneo dell’architettura in cui, dopo alterne vicende, le pratiche visuali stanno tornando ad assumere un ruolo centrale, nel progetto quanto nella teoria.
Bibliografia
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- Si veda: C. Jencks, The Language of Post-modern Architecture, Rizzoli, New York 1991, e K. Frampton, Modern Architecture: A Critical History, Thames & Hudson, Londra 2020.
- A questo proposito, si veda, per esempio: G. Vattimo, P.A. Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 2011, citato anche da Portoghesi nell’introduzione a I nuovi architetti italiani (Portoghesi 1985) e Sylvia Lavin in Architecture Itself and Other Postmodernization Effects (Lavin 2020, p. 42), in cui viene anche riportato l’avvertimento iniziale di Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour ai lettori di Learning from Las Vegas (Venturi, Scott Brown, Izenour 1972, p. 90) sull’utilizzo delle immagini da parte degli architetti.
- La metodologia applicata è di fatto iconologica. Si veda: C.S. Wood, A History of Art History, in particolare il riferimento a Bordieu in merito alle nozioni di misunderstandings, half-understandings e synthetic intuition in Panofsky (Wood 2019, p. 368-369).
- Resta da capire se l’opera, un olio su tela di 180 x 323 cm, la cui ultima collocazione accertata è una collezione privata milanese, non sia stata per caso conosciuta da Aldo Rossi, se non di persona, almeno in riproduzione, attraverso una delle tante significative pubblicazioni su Canaletto e i vedutisti veneziani dello stesso periodo, come per esempio: C. Brandi, Canaletto, Mondadori, Milano 1960; P. Zampetti, Vedutisti veneziani del Settecento, Alfieri edizioni d’arte, Venezia 1967; G. Berto, L. Puppi, L’opera completa del Canaletto, Rizzoli, Milano 1968, e anche A. Corboz, Canaletto. Una Venezia immaginaria, Alfieri Electa, Milano 1983. 6 In Piranesi und sein Museum : die Restaurierung der Antike und die Entstehung des Style Empire in einer sich globalisierende Welt / Piranesi and His Museum. The Restoration of Antiquity and the Genesis of the Empire Style in a Globalizing World (Zentralinstitut für Kunstgeschichte-Deutscher Kunstverlag, Monaco-Berlino 2019), Caroline van Eck si sofferma sull’aspetto psicologico del restauro al tempo di Piranesi e riferisce in particolare due episodi riguardanti Wilhelm von Humboldt e Adam Buck. Entrambi avevano perso dei figli ed entrambi, in modi diversi, avevano sostituito le loro effigi in due opere d’arte, sotto forma di statue e dipinti. Le operazioni che abbiamo visto finora sembrano muovere da una necessità simile, di riappropriazione del passato e, allo stesso tempo, di azione sul presente.
- In Piranesi und sein Museum : die Restaurierung der Antike und die Entstehung des Style Empire in einer sich globalisierende Welt / Piranesi and His Museum. The Restoration of Antiquity and the Genesis of the Empire Style in a Globalizing World (Zentralinstitut für Kunstgeschichte-Deutscher Kunstverlag, Monaco-Berlino 2019), Caroline van Eck si sofferma sull’aspetto psicologico del restauro al tempo di Piranesi e riferisce in particolare due episodi riguardanti Wilhelm von Humboldt e Adam Buck. Entrambi avevano perso dei figli ed entrambi, in modi diversi, avevano sostituito le loro effigi in due opere d’arte, sotto forma di statue e dipinti. Le operazioni che abbiamo visto finora sembrano muovere da una necessità simile, di riappropriazione del passato e, allo stesso tempo, di azione sul presente.
- In merito alla centralità di Roma e delle sue più celebri rappresentazioni planimetriche, in particolare di Nolli e Piranesi, all’interno del discorso urbanistico americano del dopoguerra, si veda: A.P. Latini, Nollimap, in M. Bevilacqua (a cura di), Nolli Vasi Piranesi. Immagine di Roma Antica e Moderna. Rappresentare e conoscere la metropoli dei lumi, Artemide, Roma 2004, pp. 64-71.
- Si veda in particolare: “A Vienna, sullo sfondo della grande, civilissima architettura austriaca, che si compendia nella Josefplatz dove sorge il capolavoro di Fischer von Erlach.” e, più avanti, “Ma se a tutta prima questo classicismo suona come la stessa eternità dello spirito in un mondo senza storia, esso torna poi a risolversi in singoli momenti che intessono di sé la storia. Brunelleschi e Alberti, Fischer von Erlach e Schinkel sono come i fari che segnano l’orizzonte in questo alternarsi del flusso del tempo” (Rossi 1959, pp. 77, 84).
- Di Erwin Panofsky si veda in particolare l’influenza di Studies in Iconology: Humanistic Themes in the Art of the Renaissance (Panofsky 1939) e Meaning in the Visual Arts: Papers in and on Art History. (Panofsky 1955).
- Il loro emergere e affermarsi è stato ugualmente determinante per la ridefinizione dell’architettura moderna, così come è possibile vedere in Hauser e Mannheim ma anche in Pevsner e Schapiro. Si veda: E. Levy, Baroque and the Political Language of Formalism (1845-1945). Burckhardt, Wölfflin, Gurlitt, Brinckmann, Sedlmayr, Schwabe Verlag, Basilea 2015.
- Fiske Kimball è fondatore dell’Institute of Fine Arts della New York University e poi direttore del Philadelphia Museum of Art. È stato lui a invitare Panofsky al programma di conferenze pubbliche nel 1935. Nel 1943 Kimball pubblica The Creation of the Rococo, che certamente può aver esercitato un certo peso nel portare l’attenzione dell’epoca verso la produzione artistica europea settecentesca (Kimball 1942; 1943). Si vedano inoltre: N. Pevsner, Rezension, in “Burlington Magazine for Connoisseurs”, 88, 1946, pp. 128- 130; F. Kimball, American Architecture, AMS Press, New York 1970.
- In relazione al panorama della storia dell’arte, Christopher S. Wood nota che: “For Wittkower and Panofsky, war brought the pastoral fable to an end. Now the present needs lessons from the past. That is the basic split after the war, even today: who is confident any longer that modernity can manage its own affairs?” (Wood 2019, p. 371).
- Si vedano inoltre: H.W. Janson, D.J. Janson, Key Monuments of the History of Art: A Visual Survey, Harry N. Abrams, New York 1959; H.W. Janson, D.J. Janson, Picture History of Painting, from Cave Painting to Modern Times, Thames & Hudson, Londra 1971; H.W. Janson, A.F. Janson, History of Art and Music, Harry N. Abrams, New York, 1997; H.W. Janson, A.F. Janson, History of Art, Harry N. Abrams, New York 2001.
- A questo proposito, Sylvia Lavin nota che: “By the 1960s, in fact, “images” increasingly meant color slides, cheap, quick, and high-quality even in the hands of amateur photographers and the machines of automated film processing, they could be produced and reproduced in staggering quantities. […] As the cost and hence the value of any individual image decreased, the number of images used and, ultimately, expected on any given occasion increased. Drexler’s proposed lectures required at least forty images and Venturi’s book required 360 images, each printed at the size of a 33 mm slide” (Lavin 2020, p. 41).
- Si veda ad esempio: J. Ackerman, The Architecture of Michelangelo, University of Chicago Press, Chicago 1996; Palladio, Penguin Books, Londra-New York 2008; Palladio’s Villas, Institute of Fine Arts, New York University, New York 1967; ma anche: C.H. Smyth, Mannerism and Maniera, IRSA Verlag, Vienna 1992 ; J. Shearman, Mannerism, Penguin Books, Harmondsworth 1969; Mannerism: Style and Civilization, Penguin Books, Londra 1978; che seguono, in Gran Bretagna, R. Wittkower, Principles of Palladio’s Architecture: II, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, v. 8, 1945, pp. 68-106; R. Wittkower, Architectural Principles in the Age of Humanism, Warburg Institute Londra 1949.
- Si vedano, su Piranesi: R. Bacou (a cura di), Piranesi: Etchings and Drawings, New York Graphic Society, Boston 1975; J. Scott, Piranesi, Academy editions, Londra 1975; J. Wilton-Ely, The Mind and Art of Giovanni Battista Piranesi, Thames & Hudson, Londra 1978; su Fischer von Erlach: H. Aurenhammer, Johann Bernhard Fischer von Erlach, Harvard University Press, Cambridge 1973; ma anche: C. Coulin, Drawings by Architects: From the Ninth Century to the Present Day, Reinhold Publishing Corporation, New York 1963; G. Bazin, The Baroque: Principles, Styles, Modes, Themes, Norton, New York 1978; su Bib(b)iena: A. Hyatt Mayor (a cura di), Giuseppe Galli da Bibbiena, Architectural and Perspective Designs, Dover Publications, NewYork 1964; D. Kelder (a cura di), L’Architettura civile: Ferdinando Galli Da Bibbiena, B. Blom, New York 1971.
- Si vedano, di Dover Publications: F. Stampfle, Giovanni Battista Piranesi: Drawings in the Pierpont Morgan library, New York 1978; C.D. Denison, H.B. Mules, European Drawings, 1375-1825, New York 1981; di Gregg Press: J.B. Fischer von Erlach, A Plan of Civil and Historical Architecture, in the Representation of the Most Noted Buildings of Foreign Nations, Both Ancient and Modern, Farnborough 1964); R. Boyle of Burlington, The fabbriche antiche of Andrea Palladio, Farnborough 1969; W. Pain, The Builder’s Pocket- Treasure; Or, Palladio Delineated and Explained, Farnborough 1972; J. Wilton-Ely (a cura di), The Polemical Works, Rome 1757, 1761, 1756, 1769: Giovanni Battista Piranesi, Farnborough 1972.
- La mostra Europa-America è da questo punto di vista un esempio emblematico. In una recente intervista (…), Robert Stern sostiene senza mezzi termini: “Lo scambio interculturale della Biennale del 1976 fu una grande opportunità per non sentirci come gli americani stupidi che ricevevano saggezza dal Vecchio Mondo, ma per mostrare al Vecchio Mondo che anche noi avevamo idee, idee diverse ma ugualmente valide e interessanti”.
- In merito a questo tipo di approccio, alcuni autori hanno fatto riferimento a un substrato teologico protestante della mentalità americana rispetto a quella europea o, se non altro, dell’Europa mediterranea. A questo proposito si veda ad esempio: S. Pisciella, America-Europa-America IAUS-IUAV-IAUS 1971- 1976-1978, in V.P. Mosco (a cura di), La mia età è l’età del mondo, Aracne, Roma 2014, pp. 62-79. In questo saggio, Pisciella offre una lettura specifica del periodo alla luce dei rapporti dello IAUS con l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia IUAV. Il contributo presente tenta un più ampio inserimento di questo dialogo all’interno di una dinamica transatlantica di scala più generale. Questo punto di vista permette un’inversione delle “migrazioni” individuate: non più America-Europa-America, ma Europa-America-Europa.
- Si veda: E. Vittorini (a cura di), Americana, Bompiani, Milano 1941; ma anche: D. Fernandez, Il mito degli Stati Uniti per gli intellettuali italiani nel periodo fascista, in “Lettere Italiane”, vol. 29, n. 4, 1977, pp. 416-426, e J. Dunnett, The “Mito Americano” and Literary Culture under Fascism, Aracne, Roma 2015.
- Si veda la citazione di S. Fabbrini, The State of Architecture. Aldo Rossi and the Tools of Internationalization, Il Poligrafo, Padova 2020, p. 48.