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Architectural Ethnography? Incipits, distances, horizons for research and teaching practices

authors

Gennaro Postiglione Paola Briata

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June 18, 2022
Abstract

Architectural ethnography has increasingly been a focus of attention thanks to recent studies carried out by Albena Yaneva or to practices and research carried out by Momoyo Kaijima with her Atelier Bow Wow. Starting from an interest in the specificities of ethnographical approaches if practiced by architects, or by professionals and researchers having particular attention to forms, materiality and uses of the space in the everyday, this article outlines a literature review on ethnography for designers. This review has been helpful in defining through convergences and distances a specific positioning that we are assuming in teaching and doing research for design. A path that led to further questions on the role of transcription (graphical, photographic, textual) in architectural ethnography, as well as to challenging the role of tradition and innovation in this recent stream of research. 

Architettura etnografica?
Incipit, distanze, orizzonti per la ricerca e l’insegnamento

La così detta architectural ethnography ha visto crescere il proprio interesse grazie a studi recenti come quelli di Albena Yaneva e ai lavori e alle ricerche di Momoyo Kaijima con il suo Atelier Bow Wow. Prendendo le mosse da un interesse per le specificità dei percorsi etnografici quando sono messi in atto dagli architetti, ovvero da persone che dovrebbero avere una precisa sensibilità per la forma e per lo spazio, per le sue pratiche d’uso e per la sua materialità, l’articolo propone alcuni percorsi bibliografici tesi a definire una postura che negli ultimi anni abbiamo assunto nel fare didattica e ricerca per il progetto attraverso l’individuazione di convergenze e distanze con la letteratura esistente. Un percorso che ci ha portati a interrogarci sul ruolo della trascrizione (grafica, fotografica e testuale) nell’architectural ethnography, così come a mettere in tensione il ruolo di tradizione e innovazione in queste recenti esperienze.

Introduzione

Il termine etnografia deriva dal greco e questo è il significato che ne viene dato nell’enciclopedia Treccani online: “rappresentazione scritta delle forme di vita sociale e culturale di gruppi umani” 1 L’articolo deriva dalla riflessione comune degli autori su esperienze didattiche e di ricerca. Ulteriori approfondimenti sono in atto grazie al progetto Etno-Grafie. La trascrizione (testuale, grafica, fotografica) dell’osservazione sul campo come pratica specifica dell’Architectural Ethnography finanziato dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano. I paragrafi 1-3 sono da attribuire a Paola Briata, i paragrafi 4 e 5 a Gennaro Postiglione. . Al tempo stesso, l’etnografia delinea sia un percorso di ricerca con alcune caratteristiche specifiche, sia il prodotto testuale di quel percorso (Madden, 2017). Cosa succede quando chi osserva in una ricerca etnografica è un architetto o una persona con una precisa sensibilità per la forma e per lo spazio, per le sue pratiche d’uso, per la sua materialità?

Questa la domanda che è inizialmente emersa e che ha guidato il lavoro che portiamo avanti da cinque anni nei laboratori di progettazione in cui insegniamo alla Scuola di Architettura, Urbanistica e Ingegneria delle Costruzioni del Politecnico di Milano (Briata, Postiglione, 2021; 2022). Esperienze didattiche nelle quali proponiamo esercizi orientati al lavoro sul campo, per mettere in rilevo l’utilità per il progetto dell’osservazione prolungata, finalizzata a comprendere gli intrecci tra persone, luoghi e pratiche d’uso dello spazio. I campi di applicazione che abbiamo esplorato finora sono gli interni (non solo domestici) e lo spazio pubblico urbano, laddove “pubblico” non si riferisce necessariamente né al regime proprietario, né alle destinazioni d’uso prefigurate nei progetti, ma piuttosto “all’uso che se ne fa” (Crosta, 2010).

Abbiamo competenze diverse: un’esperta pianificazione e politiche urbane che pratica da molti anni approcci etnografici e un esperto di interni e cultura domestica che abbina la riflessione teorica sull’abitare con un forte orientamento al progetto. Condividiamo la convinzione che un buon architetto (o un buon planner) debba possedere almeno un paio di scarpe comode per camminare, osservare, apprendere dagli abitanti intesi come le persone che vivono e usano un territorio 2 L’attenzione è sulle pratiche d’uso dello spazio, quindi da qui in poi con la parola abitanti si intenderà sia chi abita stabilmente in un luogo, sia chi “lo usa” (Cfr. Crosta, 2010). . Un lavoro che sempre più ha stimolato una riflessione che, partendo dall’etnografia urbana, ha provato a comprendere le specificità dei percorsi etnografici orientati alla progettazione dello spazio e alla così detta “architectural ethnography” (Kaijima, 2018). In questo saggio, ci proponiamo di fare il punto sull’orizzonte teorico che ha fatto da riferimento in questo percorso e sulle nuove aperture che una serie di letture hanno generato in termini di orientamento nel nostro modo di insegnare e fare ricerca.

1. Blocchi di partenza

Dagli scritti degli etnografi con un background sociologico e antropologico, sappiamo che un percorso etnografico è un’esperienza corporea e situata nella quale ognuno mette in gioco il proprio background (Semi, 2010; Ocejo, 2013). Se il background è quello di un architetto, anche questo agisce da filtro nell’esperienza che rifletterà una specifica sensibilità spaziale. Dell’architetto ci interessa l’attenzione alla vita nello spazio, mentre cerchiamo di non cadere nella tentazione di dire ex ante che uno spazio potrebbe funzionare meglio se fosse disegnato in un certo modo. L’esercizio implica una sorta di sospensione della tensione progettuale per focalizzarsi sugli intrecci tra persone, luoghi e pratiche d’uso nella vita quotidiana (de Certeau, 1984).

Cranz, in Ethnography for Designers (2016) sottolinea come, in architettura, non ci siano solo la forma e la struttura. Attraverso un racconto delle esperienze didattiche alla Harvard School of Design, l’autrice propone un percorso che, dal suo punto di vista, è finalizzato a educare i futuri designers ad ascoltare i clienti e gli users. Il volume riprende scritti precedenti su come le metodologie etnografiche possano supportare la pratica architettonica (Pavlides, Cranz, 2012) laddove si esplicita che il fine ultimo di insegnare l’architettura con un’attenzione agli aspetti sociali e culturali è da mettere in relazione con la volontà di migliorare la progettazione, costruendo o riadattando edifici, imparando dalle esperienze degli abitanti. Se l’etnografia è la descrizione (grafia) delle persone (etno), questo significa descrivere i comportamenti e le espressioni materiali della cultura, una cultura nella quale è inclusa anche l’architettura.

In generale il lavoro di Cranz sottolinea alcune specificità dell’etnografia praticata nel design, soffermandosi su cosa significa sviluppare un approccio etnografico sensibile allo spazio. Agganciandosi agli studi sulla territorialità, indaga il ruolo dello spazio nelle relazioni di potere, nel facilitare o meno l’incontro, nel separare usi e popolazioni. Interessante è la distinzione tra osservazione diretta partecipante (il metodo chiave dell’etnografia) e partecipazione in architettura: se quest’ultima implica più o meno retoricamente una delega da parte dei progettisti a (pochi) abitanti sul futuro possibile per uno spazio, la prima mette in gioco il filtro del progettista nel guardare a una situazione nello spazio. Il progettista osserva le pratiche spaziali, impara da chi usa gli spazi, ma assume una responsabilità progettuale, legittimato da un sapere esperto che gli abitanti non hanno. Da alcuni punti di vista, i due atteggiamenti appaiono quasi situati su versanti opposti: in un caso è l’osservatore ad essere “partecipante” al luogo-pratiche, nell’altro sono “gli end-users” a partecipare al lavoro dell’architetto.

La parte meno convincente degli scritti di Cranz è che, nel complesso, delineano una sorta di manuale per realizzare una pratica etnografica in tempi compressi (dall’esercizio accademico, dai bandi per i professionisti), fortemente codificata in ogni passaggio. Ma l’etnografia è difficilmente codificabile in modo lineare: è anche abbandonarsi alla serendipity, scoperta dentro percorsi che portano all’inatteso, sorpresa (Cefaï, 2013). Tensioni manualistiche 3 Nova (2014) sembra comunque consapevole della difficoltà di stabilire “un metodo” quando afferma che il processo di design può essere descritto più come una serie di loop che come un processo lineare. si ritrovano anche in Nova (2014) che definisce l’architectural ethnography come un metodo di ricerca sul campo che studia le forme, le tecnologie e i materiali per costruire e, al tempo stesso, si occupa del contesto socio-culturale dell’architettura. La ricerca sul campo include indagini sugli edifici, mappature dei luoghi, osservazione partecipante, interviste con diversi attori coinvolti nel costruire e abitare come parte di una cultura materiale. L’immersione dell’architetto-etnografo nella vita quotidiana rende possibile la comprensione delle culture architettoniche, delle ecologie politiche e della conoscenza sociale e tecnica che caratterizza l’ambiente costruito.

Se Cranz integra il sapere etnografico centrato sulle persone e sulle relazioni sociali con la sensibilità per le forme e le qualità dello spazio, il lavoro di Nova sollecita l’attenzione anche verso la materialità del costruito come espressione di una cultura situata. Questi testi sono dei punti di partenza, ma non bastano a comprendere come si produca la conoscenza etnografica per il progetto e per testare il progetto.

Indagare un processo di conoscenza non è mai semplice, ancor più se, come sottintende Nova nella sua osservazione del lavoro di professionisti (architetti, accademici e non) che descrivono le proprie modalità di applicazione in campo etnografico, si mantiene un velo di mistero rispetto all’effettivo dispiegarsi del processo di apprendimento, non esplicitando alcuni passaggi per comprendere i nessi tra osservazione, rappresentazione, narrazione e progetto. Tuttavia, attraverso una rassegna della letteratura che mette in relazione etnografia, architettura e progetto, è possibile perlomeno iniziare a delineare una mappa di quello che è stato scritto e indagato, anche per escludere alcuni percorsi che sembrano lontani da quello che proponiamo. Di questo, ci occupiamo nel prossimo paragrafo.

2. Distanze

Un primo filone di studi, pur riferendosi anche alla pratica dell’etnografia per il design e l’architettura, concentra l’attenzione sui metodi della ricerca etnografica. È il caso, solo per portare un esempio, di Ethnography Field Guide messa a punto da Helsinki Design Lab 4 Si veda http://helsinkidesignlab.org/pages/ethnography-fieldguide.html (ultimo accesso 11.04.2022). . Questi studi e pratiche molto attenti a trasferire in modo semplificato e “velocizzato” metodologie ampiamente studiate dagli etnografi tout court, non rientra tra gli interessi del nostro percorso. È un lavoro che per molti versi “lasciamo agli etnografi” che sono ben più esperti di noi. Al tempo stesso, non siamo interessati a indagare quali rapporti ci potrebbero essere, nella pratica architettonica, tra etnografi e progettisti (Nova, 2014). Il tema non è stabilire una collaborazione transdisciplinare, ma avvalersi degli strumenti conoscitivi e delle metodologie etnografiche per osservare e descrivere i luoghi che si andranno a progettare.
La rilevanza di questo posizionamento emerge anche da alcuni studi che hanno comportato delle ricerche etnografiche sulla pratica professionale degli architetti. In un recente lavoro etnografico che ha messo al centro dell’attenzione tre rinomati studi di architettura in Belgio (Van der Linden, Dong, Heylighen, 2019) le autrici si soffermano sulla rappresentazione dei fruitori degli spazi nella pratica architettonica, sostenendo che raramente gli architetti hanno accesso al loro punto di vista. Gli architetti lavorano spesso re-immaginando gli abitanti e chi usa lo spazio fino al punto di “costruirli” o inventarli. La ricerca esplora la gamma di atteggiamenti che gli architetti assumono per costruire i profili delle persone per le quali stanno progettando. Lo studio, da un lato critica le rappresentazioni e le narrazioni degli architetti, nelle quali gli abitanti sono sostanzialmente assenti, dall’altro enfatizza il lavoro immaginativo necessario a costruire una figura fittizia, all’interno di un progetto. Le autrici mostrano che, anche se le persone sono consultate raramente – e chi progetta è generalmente consapevole di non controllarne la prospettiva – nel costruire queste figure si mobilitano esperienze e immaginari personali per disporre di modelli di riferimento. Infine, si conclude osservando come l’assenza della voce degli abitanti e di chi usa uno spazio difficilmente diviene oggetto di discussione quando si fa un progetto di architettura. Il lavoro che proponiamo è invece centrato sugli intrecci tra luoghi, persone e pratiche d’uso dello spazio e del territorio. Questa dal nostro punto di vista è etnografia per il progetto (e anche il fare architettura che ci piace).

Il lavoro di Van der Linden, Dong e Heylighen è parte di una raccolta più ampia di saggi che raccontano di osservazioni etnografiche del lavoro quotidiano negli studi di architettura (Yaneva, 2018), ma anche questo filone di studi non assume la nostra prospettiva.

Diverse ricerche (ad esempio, Kingery-Page, Glastetter, De Orsey, Falcone, 2016) raccontano di come ci si possa affidare a metodi etnografici per attivare processi partecipativi in architettura. Su questo punto, come già accennato, concordiamo con Cranz (2016) nell’affermare la rilevanza di un approccio etnografico al progetto, che è cosa diversa dalla partecipazione, un fraintendimento che ci sembra frequente quando si fa riferimento all’etnografia.

Negli ultimi vent’anni è stata anche indagata una “svolta etnografica” nel product design (Dourish, 2006; Randall et al, 2007; Blomberg, Burrell, 2012) che delinea dei percorsi dai quali è utile prendere le distanze: la design ethnography, ovvero un uso dell’etnografia finalizzato a disegnare prodotti di successo, centrato sull’esito e non sul processo di produzione della conoscenza; l’ethnography through artifacts che introduce nuovi prodotti in alcuni ambienti, per “provocare” una reazione da parte degli users in una forma di etnografia proattiva; la mobile ethnography nella quale, attraverso strumenti digitali, il ricercatore può non essere fisicamente presente in un contesto e moltiplicare in modo esponenziale il numero degli “informatori”. Nel nostro lavoro ci proponiamo di esplorare l’interazione tra l’etnografo-progettista, le persone e i luoghi. La densità delle informazioni deriva soprattutto dal processo diretto e partecipante, da un’esposizione anche corporea dell’osservatore nello spazio che permette al corpo nello spazio di registrare informazioni “con tutti e cinque i sensi” (Briata, 2022), dall’apertura alla sorpresa che non può essere finalizzata a un prodotto, da una certa capacità selettiva che non produce conoscenza in base alla “quantità” di dati raccolti.

3. Orizzonti

Stender, Bech-Danielsen e Landsverk Hagen (2022) parlano di “architettura antropologica” nell’interrogarsi su cosa gli architetti possono imparare dagli antropologi e vice-versa. Questi autori sottolineano come, negli ultimi trent’anni, le scienze sociali, tra cui l’antropologia, abbiano rinnovato il proprio interesse per l’organizzazione dello spazio, per i luoghi e le forme dell’abitare umano, per il rapporto tra il contesto fisico e la vita sociale, per la materia e quindi per l’interazione tra ciò e l’umano o non umano. Gli antropologi contemporanei interessati all’architettura sono più propensi a inserirsi in discorsi teorici, mentre gli architetti che si affidano anche all’antropologia sembrano essere interessati soprattutto ai metodi etnografici. In questo contesto, gli autori sottolineano alcune peculiarità di antropologi e architetti-etnografi che aiutano a delinearne il profilo. Tra queste, un aspetto rilevante riguarda il tema comunicativo perché gli architetti più degli antropologi comunicano graficamente, nonostante ci sia un’importante tradizione di antropologia visuale legata a film e mostre etnografiche. Le immagini sono sempre più usate come strumenti di conoscenza e non solo come mezzo per una restituzione finale.
In Learning from Architectural Ethnography, Kaijima (2018) 5 Testo pubblicato originariamente in Kaijima, Stalder, Iseki, (2018): The official English guide book to the Architectural Ethnography exhibit on show at the Japan Pavilion at the 16th International Architecture Exhibition of the Venice Biennale (May 26 – November 25, 2018). parte dal presupposto che la vita “superi” l’architettura, ma anche che sia al tempo stesso la base e l’essenza per l’architettura. Anche per questo, comprendere la vita nelle sue forme differenti, come fa l’etnografia, è una precondizione per “ingaggiarsi con la vita”. Le domande di ricerca che emergono in questo volume sono interessanti anche per noi: quale significato assume questo ingaggio in architettura? Come possono essere mappate la miriade di situazioni che nutrono il disegno di un edificio e al tempo sono il risultato di questo disegno? Come si indirizzano i disegni di architettura, non come un semplice sistema di annotazioni, ma come strumento per documentare, discutere e valutare un’architettura? Come possono lavorare i disegni per esplorare gli usi effettivi da parte delle persone, i loro bisogni, le loro aspirazioni e ancora di più per forme di vita individualizzate nella società globalizzata di oggi? L’obiettivo del volume è quello di evidenziare la relazione tra architettura ed etnografia, incardinata nello strumento della rappresentazione, nell’utilizzo del disegno. La conclusione è che i disegni ci mostrano, da un lato, la relazione tra architettura e società (e le sue trasformazioni), dall’altro il ruolo che l’architettura (e più in generale lo spazio) gioca nel modificare e migliorare la vita quotidiana.

Questi temi sono ripresi anche nel numero 238 di ARCH+ curato da Andreas Kalpakci, Momoyo Kaijima, Laurent Stalder. Il volume, intitolato Architekturethnografie (Architectural Ethnography) cerca di comprendere attraverso una serie di esempi tecniche, metodi e pratiche del disegno quando il disegno è utilizzato come uno strumento per osservare il mondo. In un’intervista curata ancora una volta da Kaijima, l’antropologo Tim Ingold (2021) racconta di come il disegno sia un metodo fondamentale per costruire un legame tra osservazione e trascrizione. Ingold ritorna spesso nei suoi scritti sul rapporto tra disegno, osservazione e architettura, sottolineando che anche dal suo punto di vista l’architettura non è solo forma o costruzione, ma un modo di interrogare il mondo che si distingue per la fascinazione per i materiali e le strutture, le superfici e le atmosfere, la multisensorialità di un ambiente che è o diventa un luogo di vita per gli esseri umani e per gli esseri viventi in generale.

Guardando al background di studi esistenti, ci sembra rilevante partire dalle pratiche di architettura etnografica non tanto per capire come gli architetti fanno etnografia, ma per comprendere come trascrivano ciò che osservano facendo etnografia attraverso disegni, testi scritti e fotografie, in narrazioni e progetti.

La letteratura ci ha portato a riflettere su un’ulteriore domanda di ricerca: assumendo che la rappresentazione abbia un ruolo cruciale nel sapere disciplinare di un progettista, come avviene la trascrizione delle informazioni raccolte sul campo di osservazione? Come leggere/decodificare il contenuto delle trascrizioni in un’ottica conoscitiva prima e progettuale poi? Gli esercizi che abbiamo proposto ai nostri studenti negli ultimi sette anni hanno contribuito a porre e alimentare queste questioni e a esplorare quanto disegno, fotografia e testo scritto siano prima ancora che strumenti di comunicazione, strumenti di apprendimento.

4. Pratiche didattiche

L’esigenza di raccontare i percorsi bibliografici illustrati fin qui ha nutrito e si nutre di tre esperienze didattiche per noi significative: i laboratori ReCoDe 6 Sono membri di ReCoDe Paola Briata, Massimo Bricocoli, Gennaro Postiglione, Stefania Sabatinelli. (2017-2020) centrato sull’osservazione della dimensione domestica, Gratosoglio Ground Zero, focalizzato sui piani terra di un quartiere popolare alla periferia di Milano (2019) e Quarantined Houselives svolto online durante il lockdown dei primi mesi del 2020, una situazione che ci ha portato ad osservare la dimensione domestica, ma in una condizione auto-etnografica e introversa.

Tutti i laboratori sono stati caratterizzati da una metodologia di lavoro basata su di un sistema di “istruzioni per l’uso” stringente nei modi (dal disegno, alla scrittura, alla fotografia), ma completamente aperto nei contenuti. Un cortocircuito che ha messo in evidenza il carattere produttivo di un sistema di indagine e conoscenza basato sul valore soggettivo dell’osservazione e il plusvalore del ricorso a un sistema condiviso e normalizzato di restituzione e narrazione delle pratiche d’uso dello spazio. In tutti i laboratori è stato dato ampio spazio a percorsi di osservazione prolungata, se non diretta e partecipante.

Con ReCoDe abbiamo chiesto di individuare all’interno della propria rete familiare o amicale, situazioni abitative “non convenzionali” (non riconducibili al nucleo familiare tradizionale composto da una coppia eterosessuale e da uno o due figli naturali che vivono insieme in un unico domicilio) al fine di catalogare i modelli più significativi (e inattesi). Questa operazione ha permesso di costruire un “Atlante delle famiglie non-convenzionali” composto da oltre 300 casi che illustrano le differenti tipologie di abitare non convenzionale e i loro profili sociali. Le nuove “famiglie” sono composte anche da persone appartenenti a generazioni diverse e senza relazioni familiari, così come accade nella pratica di condivisione, diffusa tra la popolazione studentesca.

Oltre alle interviste, per ogni caso è stato redatto un diario quotidiano della vita domestica e un elenco di criticità e desiderata degli occupanti in merito all’organizzazione e all’uso condiviso dello spazio. Queste informazioni sono state diagrammate e le routine quotidiane dei singoli nuclei sono state analizzate trasversalmente con particolare attenzione alla forma dello spazio, alla disposizione degli arredi e alla tipologia generale dell’abitazione, alla distinzione tra spazi privati e collettivi e al loro grado di affollamento. Infine, a ogni studente è stato chiesto di ridisegnare il proprio caso studio prestando particolare attenzione alla rappresentazione non solo della struttura architettonica, ma anche di qualsiasi arredo o suppellettile in grado di restituire il modo in cui le persone occupano e vivono i propri spazi. Una vera e propria etno-grafia applicata al disegno architettonico.

Da queste osservazioni sono emerse tutte le incongruenze esistenti tra la routine quotidiana degli abitanti e gli spazi in cui essa si svolge. I disegni e i diagrammi hanno messo l’accento sui luoghi (spazio) e i momenti (tempo) di maggior conflitto all’interno dell’abitazione, mostrando tutti i limiti del progetto domestico modernista fondato su un’idea(le) di famiglia che trovava il suo riflesso nella forma e nella struttura di un certo tipo di alloggio. Inadeguatezze dimensionali e distributive che mostrano una cultura univoca dell’abitare non più dominante. Le ulteriori indagini svolte dagli studenti su casi studio (progetti e ricerche by design) hanno arricchito, a valle del lavoro sul campo, le osservazioni critiche sui comportamenti di chi coabita e sui requisiti da considerare rilevanti per l’architettura degli interni. Queste sono state tradotte in linee guida e raccomandazioni per la progettazione di una nuova tipologia di alloggio destinata all’abitare condiviso 7 Tutti i materiali relativi a ReCoDe sono reperibili al sito: http://www.lablog.org.uk/2018/09/09/recode-2018-final-report/ (figura 1).

Figura 1 – profili degli abitanti e nuove tipologie di stanze (ReCoDe 2019)

In Gratosoglio Ground Zero gli studenti sono stati guidati nella comprensione del ruolo giocato dallo spazio e nell’organizzazione della vita sociale. Facendo attenzione a non cadere in banali determinismi, è stato evidenziato come gli spazi possano unire, separare, riprodurre un certo ordine sociale o metterlo in discussione e come gli oggetti possano giocare in questo quadro un ruolo anche fortemente antagonista. Tutti hanno interagito con gli abitanti, preso nota di quanto emergeva dall’esplorazione sul campo, restituito l’esplorazione con dei testi scritti che dovevano evocare incontri, atmosfere, percezioni, emozioni ed esperienze multisensoriali. Testi scritti “veloci”, brevi, comunicativi, ma densi nei significati, restituiti su un formato A5 per uniformarsi agli altri materiali grafici e fotografici, ma senza porre limiti stilistici nella scrittura.
Gli studenti hanno inoltre lavorato due livelli di restituzione delle pratiche osservate: uno macro e uno micro, che si è concentrato sulla descrizione fisica puntuale e materica dei contesti e degli oggetti, in cui le pratiche osservate e ritenute significative sono state registrate. Partendo proprio dagli oggetti, mobili e/o immobili, pubblici e/o privati, si è cercato di decostruire il sistema spaziale in un numero finito di elementi per poterli comprendere, descrivere, sistematizzare. Con l’obiettivo implicito di suggerirne l’utilizzo con finalità progettuali (figura 2).

Figura 2 – soggiorno collettivo (GRZ.0 2019)

Collettivamente, come un oggetto di co-design, gli studenti hanno realizzato una grande isonometria alla scala media – lunga 12 metri e alta 3 – di tutta l’area di Gratosoglio, sulla sono state riportate le informazioni più significative raccolte nel lavoro sul campo. Sull’isonometria, sono stati riportati oggetti, sfondi e pavimentazioni, ma anche frammenti delle descrizioni etnografiche, delle interviste, degli “ascolti” attivati nei luoghi durante le sessioni di lavoro sul campo. Una mappa capace dunque di mettere sullo stesso piano informativo luoghi (nella loro descrizione fisica ed esperienziale), persone e pratiche (che quei luoghi rendono vivi, nutrendoli di senso). Le dodici tavole di Gratosoglio rappresentano dei luoghi, ma intersecano anche i racconti personali di chi quei luoghi vive e di chi quei li ha osservati per un semestre, innescando un dialogo tra narrazioni che riescono a evadere lo sguardo stigmatizzante, cogliendone invece tutta la forza creativa e progettuale (figura 3).

Figura 3 – La mostra finale di Gratosoglio Ground Zero (2019)

Anche in Quarantined Houselives abbiamo affiancato la parola scritta a narrazioni fotografiche e disegni capaci di rappresentare la quotidianità degli usi all’interno delle case, nelle stanze, nei luoghi comuni, nei terrazzi e nei giardini. Ancora convivenze dunque, ma anche una competizione sugli oggetti, un nuovo “ritmo” per le stanze, talvolta una conflittualità per gli usi multipli della stessa stanza. Salotti che diventano aule di studio e uffici di giorno, sale cinematografiche la sera, camere da letto per un membro della famiglia la notte. Appartamenti condivisi con altri studenti nei quali, durante la quarantena, ogni stanza è diventata una sorta di “guscio personale” dove svolgere ogni attività quotidiana dall’alba al tramonto, limitando paradossalmente al minimo i contatti negli spazi comuni con gli altri conviventi. Il tema del guscio è emerso anche laddove la carenza di spazi non permetteva una separazione forte e lo spazio personale si risolveva nella territorializzazione da parte dei conviventi di un divano, una scrivania, un letto, un tappeto.
Un esercizio particolarmente utile è stato la mappatura de “la vita attorno agli oggetti” che ha fatto emergere una sorta di catalogazione delle affordances (Gibson, 1966) di tavoli, tappeti, letti, trasformati in scenari per le più diverse attività, talvolta ben lontane da quelle per le quali erano stati originariamente pensati (figura 4). Una risorsa estremamente preziosa nel migliorare la vivibilità degli spazi delle case in quarantena e questa osservazione può avere una valenza progettuale, al di là di quanto osservato nella dimensione personale della propria casa in un momento di emergenza. Una ricerca su un campo introverso dunque, ma che ha permesso di riflettere anche su tematiche più ampie della società, oltre lo sguardo sugli interni.

Figura 4 – La vita attorno agli oggetti (QLHL 2020)

5. Oltre (o prima) dell’architettura etnografica?

Esperienze didattiche e percorsi bibliografici ci portano a pensare che la trascrizione (grafica, fotografica, testuale) si configuri come una pratica specifica dell’architectural ethnography che merita di essere approfondita. L’attenzione è dunque in primo luogo sulla trascrizione e soprattutto sull’intersezione e sull’interazione tra trascrizioni. I materiali bibliografici trovati finora ci fanno pensare non solo che questo sia un tema importante per i progettisti e per chi insegna progettazione, ma che proprio nell’assenza di una descrizione convincente del processo di trascrizione si delinei un terreno decisamente poco esplorato: un gap di ricerca tutto da colmare, osservando le pratiche di chi l’etnografia per il progetto la usa e la fa.

Il percorso delineato sui blocchi di partenza ci ha fatto capire quanto sia importante configurare specifici percorsi etnografici sensibili alle pratiche spaziali e alla cultura materiale dei luoghi. Ma anche la necessità di prendere le distanze dalla logica del manuale che lascia pochi spazi per essere sorpresi dalle persone, dai luoghi e dalle pratiche d’uso dei territori.

Prendiamo le distanze dalla manualistica in quanto forma “categorica” di conoscenza e solo apparentemente più vicina all’operatività 8 Bianchetti e Crosta (2021) affermano che il manuale che raccoglie indicazioni pratiche è la forma più rigida di settorializzazione del sapere: proprio laddove le conoscenze si declinano con maggiore attenzione alla pratica, sono molto astratte perché distinguono a priori tra usi possibili. . Dal nostro punto di vista, il tema non è sviluppare un metodo per fare in fretta un percorso etnografico finalizzato alla progettazione, ma muoversi con una sensibilità etnografica in un contesto più o meno vincolato. Crediamo che l’insegnamento per il progetto consista nel capire come funzioni quel sistema articolato di spazio-cose-persone, sempre lontani da qualsiasi funzionalismo deterministico. L’etnografia è per noi una forma di conoscenza e non una forma tecnica: è utile perché ci aiuta a imparare e dunque è un sapere (gnosis) non una tecné.

L’architectural ethnography ha visto crescere il proprio interesse, come abbiamo evidenziato, grazie da una parte, agli studi (etnografici) di Albena Yaneva, dall’altra, ai lavori e alle ricerche di Momoyo Kaijima, e del suo studio Atelier Bow-Wow, e sembra dunque conoscere oggi un momento di particolare gloria. In fondo, però, i nostri esercizi, intendono andare più indietro nel tempo e più alle radici del lavoro, per riferirsi direttamente all’etnografia (molte volte tradita in tanti esempi proposti dalla pubblicistica) e mettendo in risonanza l’antica e fondativa tradizione delle osservazioni partecipanti tipiche dei viaggi di studio degli architetti, di tutti i tempi e di tutti i luoghi, e le “letture” dei contesti di lavoro così come promosse in maniera radicale e multidisciplinare dal TEAM X 9 Il Team X è un gruppo formato negli anni anni Cinquanta da Alison and Peter Smithson, Aldo van Eyck, Jaap Bakema, Georges Candilis, Shadrack Woods, John Voelcker, William e Jill Howell. Giovani architetti che segnano una distanza dalle prospettive funzionaliste del Movimento Moderno, in particolare dai CIAM, proponendo uno sguardo capace di dare rilevanza all’interazione tra individue ed edifici (Postiglione, 2016). , prima, e dall’ILA&UD 10 ILA&UD – The International Laboratory of Architecture and Urban Design, è un’associazione fondata nel 1976 da Giancarlo De Carlo che riunisce università, istituzioni culturali e studiosi che si interessano all’habitat umano e all’ambiente. Il laboratorio ha assunto negli anni forme di lavoro e modalità di diffusione anche molto diverse, ma un ruolo cruciale è attribuito al lavoro sul campo con gli abitanti in luoghi dove si manifestano questioni rilevanti nelle società contemporanee, siano esse sociali, ambientali o relative all’ambiente costruito. Il disegno è utilizzato come uno strumento di esplorazione e lettura dei luoghi (cfr.  https://www.ilaud.org/category/about/. Ultimo accesso 11.04.2022). , il Laboratorio di Architettura e Urbanistica fondato da Giancarlo De Carlo, poi. Due esperienze significative del Moderno tese a recuperare una tradizione antica del fare architettura che negli ultimi anni è andata sempre più scomparendo, complice forse anche il digital turn che ha investito il mondo della rappresentazione, spostando lo sguardo dalla realtà allo schermo, dalle persone ai bit, dai luoghi ai vettori. Kaijima (2018) sostiene con forza anche la necessità di reinvestire nelle potenzialità del disegno manuale perché la trascrizione attraverso un computer limita la possibilità di esprimersi: ad esempio, disegnando a mano si può passare da una scala a un’altra, anche non essere “fedeli” alle misure reali se questo è utile.

Era in uso fino a solo pochi anni fa, la necessità di fare “il sopralluogo” ogni qualvolta si iniziasse un lavoro o un progetto, non importava se professionale o accademico. Un sopralluogo “prolungato”, anche se non sempre partecipante, che era inteso come il primo vero e indispensabile momento di ogni azione progettuale, durante il quale raccogliere informazioni (testi e immagini), esperire lo spazio – col proprio corpo – e osservare i suoi abitanti. Un esercizio di osservazione che l’architetto in passato aveva sempre coltivato come fondamento dell’apprendimento di una pratica, quella dell’architettura, costituita appunto dalla relazione che viene stabilita nel progetto tra persone, cose e luoghi. Una pratica esercitata anche in occasione di viaggi (di studio) e resa manifesta nei carnet di appunti (parole, disegni, fotografie) in cui le esperienze fatte trovano una loro appropriata trascrizione che si nutre di specifici saperi disciplinari quali il disegno e la storia dell’architettura, le tecniche di costruzione e la conoscenza dei materiali, l’attenzione agli usi e alle forme, solo per citarne alcuni.

In questa prospettiva capovolta, si comprende come l’architetto – nella storia – abbia sempre avuto una postura archeologicae etnografica allo stesso tempo, dovuta alle esigenze specifiche dell’esercizio del progetto, e come l’attuale aridità di esperienze spaziali reali – quelle che coinvolgono il corpo e l’ambiente reale (tipiche dell’etnografia) – insieme alla massificazione della produzione edilizia, abbia ridotto le capacità spaziali del pensiero progettuale concreto, sollecitando altre discipline a scendere in campo.

Oggi infatti l’architettura sembra ostaggio da una parte dell’architectural ethnography e dall’altra dell’egemonia prestazionale della tecnica, un corto circuito che di fatto ha deprivato la forma dello spazio (l’architettura, appunto) della sua stessa identità. Una forma storicamente connessa agli usi ma mai utilitaristica, alla costruzione ma mai tecnicistica, ai materiali ma mai materialistica, perché l’architettura trascende sempre le ragioni e i modi che la determinano.

Perché, purtroppo o per fortuna, l’architettura è e resta, fondamentalmente, una pratica artistica con un fondamento mitopoietico.

Riferimenti Bibliografici

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  1. L’articolo deriva dalla riflessione comune degli autori su esperienze didattiche e di ricerca. Ulteriori approfondimenti sono in atto grazie al progetto Etno-Grafie. La trascrizione (testuale, grafica, fotografica) dell’osservazione sul campo come pratica specifica dell’Architectural Ethnography finanziato dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano. I paragrafi 1-3 sono da attribuire a Paola Briata, i paragrafi 4 e 5 a Gennaro Postiglione.
  2. L’attenzione è sulle pratiche d’uso dello spazio, quindi da qui in poi con la parola abitanti si intenderà sia chi abita stabilmente in un luogo, sia chi “lo usa” (Cfr. Crosta, 2010).
  3. Nova (2014) sembra comunque consapevole della difficoltà di stabilire “un metodo” quando afferma che il processo di design può essere descritto più come una serie di loop che come un processo lineare.
  4. Si veda http://helsinkidesignlab.org/pages/ethnography-fieldguide.html (ultimo accesso 11.04.2022).
  5. Testo pubblicato originariamente in Kaijima, Stalder, Iseki, (2018): The official English guide book to the Architectural Ethnography exhibit on show at the Japan Pavilion at the 16th International Architecture Exhibition of the Venice Biennale (May 26 – November 25, 2018).
  6. Sono membri di ReCoDe Paola Briata, Massimo Bricocoli, Gennaro Postiglione, Stefania Sabatinelli.
  7. Tutti i materiali relativi a ReCoDe sono reperibili al sito: http://www.lablog.org.uk/2018/09/09/recode-2018-final-report/
  8. Bianchetti e Crosta (2021) affermano che il manuale che raccoglie indicazioni pratiche è la forma più rigida di settorializzazione del sapere: proprio laddove le conoscenze si declinano con maggiore attenzione alla pratica, sono molto astratte perché distinguono a priori tra usi possibili.
  9. Il Team X è un gruppo formato negli anni anni Cinquanta da Alison and Peter Smithson, Aldo van Eyck, Jaap Bakema, Georges Candilis, Shadrack Woods, John Voelcker, William e Jill Howell. Giovani architetti che segnano una distanza dalle prospettive funzionaliste del Movimento Moderno, in particolare dai CIAM, proponendo uno sguardo capace di dare rilevanza all’interazione tra individue ed edifici (Postiglione, 2016).
  10. ILA&UD – The International Laboratory of Architecture and Urban Design, è un’associazione fondata nel 1976 da Giancarlo De Carlo che riunisce università, istituzioni culturali e studiosi che si interessano all’habitat umano e all’ambiente. Il laboratorio ha assunto negli anni forme di lavoro e modalità di diffusione anche molto diverse, ma un ruolo cruciale è attribuito al lavoro sul campo con gli abitanti in luoghi dove si manifestano questioni rilevanti nelle società contemporanee, siano esse sociali, ambientali o relative all’ambiente costruito. Il disegno è utilizzato come uno strumento di esplorazione e lettura dei luoghi (cfr.  https://www.ilaud.org/category/about/. Ultimo accesso 11.04.2022).